Mini Racconti ....
La Signora
Il treno correva veloce attraverso un paesaggio nascosto da un
leggero velo di nebbia. Avevo lavorato fino a tardi la notte per dare gli ultimi
ritocchi al progetto. Avevo scelto il treno per evitare il traffico
dell’autostrada e per dare un’ultima controllata al materiale da presentare a
breve. Il vagone, per fortuna, era quasi vuoto, così non avrei avuto seccature.
Dopo la fermata di Gallarate, comparve una donna. Alta, elegante, vestita di
scuro, sembrava avere un’età indefinita e indefinibile. Con un sorriso compunto
chiese se avesse potuto sedersi davanti a me. Stupito, quasi senza alzare gli
occhi dal mio PC, mugugnai che andava bene. Di lì a poco il treno si fermò in
mezzo alla campagna. Imprecai contro la sorte avversa che rischiava di mandare
all’aria i miei piani. Mi guardò ironica:”Perché se la prende? Il treno di
ognuno di noi un giorno deve fermarsi. E lei sarà pronto?”. Restai perplesso.
Già, quando si sarebbe fermato? Parve leggermi nel pensiero e rise
beffarda.
leggero velo di nebbia. Avevo lavorato fino a tardi la notte per dare gli ultimi
ritocchi al progetto. Avevo scelto il treno per evitare il traffico
dell’autostrada e per dare un’ultima controllata al materiale da presentare a
breve. Il vagone, per fortuna, era quasi vuoto, così non avrei avuto seccature.
Dopo la fermata di Gallarate, comparve una donna. Alta, elegante, vestita di
scuro, sembrava avere un’età indefinita e indefinibile. Con un sorriso compunto
chiese se avesse potuto sedersi davanti a me. Stupito, quasi senza alzare gli
occhi dal mio PC, mugugnai che andava bene. Di lì a poco il treno si fermò in
mezzo alla campagna. Imprecai contro la sorte avversa che rischiava di mandare
all’aria i miei piani. Mi guardò ironica:”Perché se la prende? Il treno di
ognuno di noi un giorno deve fermarsi. E lei sarà pronto?”. Restai perplesso.
Già, quando si sarebbe fermato? Parve leggermi nel pensiero e rise
beffarda.
Racconto che partecipa al concorso “L’incontro che ha cambiato la tua vita” – caricato in data 1/2/2013 su Facebook
http://apps.facebook.com/ibacidiunanotte/?fb_source=search&ref=ts&fref=ts(Rizzoli/Antonella Boralevi).
http://apps.facebook.com/ibacidiunanotte/?fb_source=search&ref=ts&fref=ts(Rizzoli/Antonella Boralevi).
Nico
Lo avevo sempre visto da lontano, non mi piaceva. Quando venne
trasferito, accettai senza entusiasmo. Furono rapporti asettici. Il tempo
qualcosa mutò. Accantonai la diffidenza. Mi parlò di filosofia, a volte non
capivo. Mi propinava libri da leggere. Quando li rendevo ne discutevamo. Un
giorno stette male, non volle aiuto e non volle spiegarmi nulla. Non replicai.
Tornò la normalità. Io leggevo e lui mi interrogava. Forse era amicizia.
Sosteneva che dovevo crearmi coscienza e sensibilità. Un giorno mi chiese che ci
facevo lì. Non risposi ma la considerai un’attestazione di emancipazione. Gli
attacchi si ripresentarono, disse che la mia lentezza comprometteva il piano di
lavoro. In un istante capii anche il senso di quando diceva che cultura e ideali
erano le uniche cose che sopravvivono alla pochezza umana. La crisi successiva
fu violenta. Mi pregò di portarlo a casa. Giunti, con un filo di voce: “Abbiamo
fatto un buon lavoro …”. Non riuscii a dirgli che apprezzavo la sua
amicizia.
trasferito, accettai senza entusiasmo. Furono rapporti asettici. Il tempo
qualcosa mutò. Accantonai la diffidenza. Mi parlò di filosofia, a volte non
capivo. Mi propinava libri da leggere. Quando li rendevo ne discutevamo. Un
giorno stette male, non volle aiuto e non volle spiegarmi nulla. Non replicai.
Tornò la normalità. Io leggevo e lui mi interrogava. Forse era amicizia.
Sosteneva che dovevo crearmi coscienza e sensibilità. Un giorno mi chiese che ci
facevo lì. Non risposi ma la considerai un’attestazione di emancipazione. Gli
attacchi si ripresentarono, disse che la mia lentezza comprometteva il piano di
lavoro. In un istante capii anche il senso di quando diceva che cultura e ideali
erano le uniche cose che sopravvivono alla pochezza umana. La crisi successiva
fu violenta. Mi pregò di portarlo a casa. Giunti, con un filo di voce: “Abbiamo
fatto un buon lavoro …”. Non riuscii a dirgli che apprezzavo la sua
amicizia.
Racconto che partecipa al concorso “L’incontro che ha cambiato la tua vita” – caricato in data 31/1/2013 su Facebook
http://apps.facebook.com/ibacidiunanotte/?fb_source=search&ref=ts&fref=ts(Rizzoli/Antonella Boralevi)
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Il racconto è stato condensato nel limite max ammesso di 1000 battute, in origine era stato scritto ponendo un limite, già contenuto, di 1000 parole … leggera differenza. Di seguito il testo originale.
Nico
Lo avevo sempre visto solo da lontano. Non avevo mai avuto
occasione di incontrarlo per motivi di lavoro o personali e non gli avevo mai
parlato. A pelle, non mi era simpatico. Alto, elegante, disinvolto, aria
leggermente sprezzante, sindacalista di sinistra impegnato aveva una forte
personalità e qualcosa di indefinito che mi impediva di apprezzarlo.
Un giorno il direttore lo accompagnò nel mio ufficio e mi disse
che avrebbe collaborato con la mia struttura. Non fu una sorpresa, perché già
ero stato preavvisato del suo arrivo, anche se non ne avevo capito il motivo. Mi
stupì il suo approccio: “Ciao sono Nico. Mi fa piacere lavorare con te. Ho preso
informazioni ….”.Gli strinsi la mano ma ancora una volta dovetti confermare il
giudizio che mi ero fatto. Non mi piaceva e non mi sarebbe mai piaciuto.
Dovetti far buon viso a cattiva sorte e cercai di mascherare il mio
disappunto.
Per necessità cominciai a interagire con lui, rapporti formali,
asettici sotto un’apparenza di collaborazione.
I giorni passavano lenti e monotoni nella routine, quasi senza
rendermene conto percepii che qualcosa stava mutando. La fredda distanza tra noi
si affievoliva, la sua corazza di alterigia si allentava e i miei preconcetti
perdevano di intensità. Gradualmente trovammo un equilibrio e, nella terra di
mezzo, capii che c’era lo spazio per una tregua o forse qualcosa di diverso.
Deposta la diffidenza, cominciai ad apprezzarne certi aspetti del carattere.
Sicuro di sé, sembrava che nulla potesse scalfire la sua ferrea sicurezza,
questo mi piaceva, probabilmente perché io quella sicurezza non l’avevo avuta
mai. Le nostre interazioni lavorative, cominciarono ad allargarsi ad altri
argomenti. In qualche pausa, cominciò a parlarmi di filosofia, materia per me
ostica e sconosciuta. Spesso non capivo certi concetti, lui se ne rendeva conto,
ma non me lo faceva pesare. Discutemmo anche di letteratura e arte. Capii quanto
c’era negli altri quando li si accetta. Spesso mi propinava qualche libro da
leggere. Qui era semplice, visto che la lettura mi era sempre piaciuta. Mi
pressava sui tempi, mi diceva che ero troppo lento e che dovevo applicarmi di
più. Ci ridevo sopra, ormai le sue battute non mi davano fastidio. Quando
rendevo il libro ne discutevamo, ritagliandoci qualche nuovo spazio durante la
giornata. Beh, non era male, lavoro e libri si potevano conciliare bene. Un
giorno mentre stavamo parlando, lo vidi cambiare espressione, divenne cereo, una
sofferenza intensa si dipinse sul suo viso. Chiesi se avessi potuto aiutarlo,
scosse la testa in un muto rifiuto. Mi disse che sarebbe passata. Lentamente
riacquistò colore anche se i suoi lineamenti restarono tesi e sofferenti. Si
alzò dalla scrivania con una certa difficoltà, non l’avevo mia visto così, e
uscì. Lo seguii in silenzio all’aperto, pensai avesse bisogno d’aria. Lo vidi
estrarre un pacchetto di sigarette e ne accese una. Rimasi perplesso. Avrei
voluto rimproverarlo, ma preferii un modo meno diretto: “Nico, cazzo, ma non sai
che il fumo fa male alla salute?”. Mi guardò divertito e prendendosi gioco di
me:”Certo che lo so. Ma a me non fa alcun danno, quindi perché perdere uno dei
pochi piaceri della vita? La nicotina poi mi serve proprio. Non ti preoccupare,
tutto sotto controllo.”. Non ebbi la forza di replicare, non sapevo che cosa
dire, non capivo … Poi, le belle risposte immediate, lapidarie, quelle che fanno
colpo, non sono proprio il mio genere. Mi sorrise e mi diede una pacca sulla
spalla. Con ciò ritenne chiuso l’incidente. Per quel giorno non ne parlammo più.
Nei giorni successivi la vita sembrava tornata alla normalità, io leggevo e lui
mi interrogava, poi discutevamo. Avrei azzardato la nascita di un sentimento
nuovo: amicizia? Forse era troppo per uno freddo come me, chi può dirlo? Non si
era ancora sopito il disappunto per quell’episodio che, come una doccia fredda,
si ripresentò. Stesso copione, stessa preoccupazione, stessa indifferenza da
parte di Nico. Cercai di parlargli, di convincerlo a farmi capire che cosa stava
succedendo. Non volle, mi disse che ero troppo giovane per capire, non mi dovevo
preoccupare e mi rimproverò nuovamente per la mia lentezza nella lettura. Io mi
impegnavo ma più di tanto proprio non ci riuscivo, altre tutto alcuni testi non
erano poi così semplici. Mi prendeva in giro e mi diceva che ero digiuno di
buone letture e che dovevo crearmi una coscienza e una sensibilità nuove.
Continuammo ancora per qualche mese, non tutto quello che mi passava, mi piaceva
ma per non dargli un dispiacere proseguivo. Un giorno mi stupì con una domanda
che mi fece piacere ma nel contempo mi lasciò perplesso: “Ma uno come te, in
banca che ci sta a fare?”. Non gli risposi e lo mandai all’inferno. Mi domandai
però se fosse una implicita attestazione di emancipazione. Lo presi come un
complimento, anche se non glielo avrei mai confessato. Gli attacchi si
ripresentarono, alla fine di uno di questi con un sorriso triste mi disse che la
mia lentezza avrebbe impedito di completare il piano di lavoro che si era
prefissato, per lui ero una delusione. Scossi la testa desolato perché avevo
capito perfettamente il messaggio che aveva voluto lanciarmi, non dissi nulla,
la voce non aveva trovato la forza di uscire. Tanta consapevolezza, tranquillità
e forza mi spaventavano. Ora capivo il senso di quando mi diceva che cultura e
ideali sono le uniche cose che sopravvivono nel tempo a dispetto della pochezza
umana. La crisi successiva fu particolarmente violenta, forse la
peggiore. Gli chiesi se desiderasse essere portato in ospedale, dove lo
curavano. Mi rispose che preferiva lo portassi a casa. Durante il tragitto stava
troppo male per parlare, anch’io non me la sentivo. Davanti a casa mi offrii di
accompagnarlo dentro. Rifiutò. Scese dall’auto lentamente, mi guardò e con un
filo di voce:“Ciao Giampa, hai fatto un buon lavoro, mi piace come sei
diventato, non dovevo dirtelo, poi ti monti la testa, ma vista la situazione …”.
Se ne andò, non potei dirgli quanto mi dispiaceva e quanto
avessi apprezzato la sua amicizia.
occasione di incontrarlo per motivi di lavoro o personali e non gli avevo mai
parlato. A pelle, non mi era simpatico. Alto, elegante, disinvolto, aria
leggermente sprezzante, sindacalista di sinistra impegnato aveva una forte
personalità e qualcosa di indefinito che mi impediva di apprezzarlo.
Un giorno il direttore lo accompagnò nel mio ufficio e mi disse
che avrebbe collaborato con la mia struttura. Non fu una sorpresa, perché già
ero stato preavvisato del suo arrivo, anche se non ne avevo capito il motivo. Mi
stupì il suo approccio: “Ciao sono Nico. Mi fa piacere lavorare con te. Ho preso
informazioni ….”.Gli strinsi la mano ma ancora una volta dovetti confermare il
giudizio che mi ero fatto. Non mi piaceva e non mi sarebbe mai piaciuto.
Dovetti far buon viso a cattiva sorte e cercai di mascherare il mio
disappunto.
Per necessità cominciai a interagire con lui, rapporti formali,
asettici sotto un’apparenza di collaborazione.
I giorni passavano lenti e monotoni nella routine, quasi senza
rendermene conto percepii che qualcosa stava mutando. La fredda distanza tra noi
si affievoliva, la sua corazza di alterigia si allentava e i miei preconcetti
perdevano di intensità. Gradualmente trovammo un equilibrio e, nella terra di
mezzo, capii che c’era lo spazio per una tregua o forse qualcosa di diverso.
Deposta la diffidenza, cominciai ad apprezzarne certi aspetti del carattere.
Sicuro di sé, sembrava che nulla potesse scalfire la sua ferrea sicurezza,
questo mi piaceva, probabilmente perché io quella sicurezza non l’avevo avuta
mai. Le nostre interazioni lavorative, cominciarono ad allargarsi ad altri
argomenti. In qualche pausa, cominciò a parlarmi di filosofia, materia per me
ostica e sconosciuta. Spesso non capivo certi concetti, lui se ne rendeva conto,
ma non me lo faceva pesare. Discutemmo anche di letteratura e arte. Capii quanto
c’era negli altri quando li si accetta. Spesso mi propinava qualche libro da
leggere. Qui era semplice, visto che la lettura mi era sempre piaciuta. Mi
pressava sui tempi, mi diceva che ero troppo lento e che dovevo applicarmi di
più. Ci ridevo sopra, ormai le sue battute non mi davano fastidio. Quando
rendevo il libro ne discutevamo, ritagliandoci qualche nuovo spazio durante la
giornata. Beh, non era male, lavoro e libri si potevano conciliare bene. Un
giorno mentre stavamo parlando, lo vidi cambiare espressione, divenne cereo, una
sofferenza intensa si dipinse sul suo viso. Chiesi se avessi potuto aiutarlo,
scosse la testa in un muto rifiuto. Mi disse che sarebbe passata. Lentamente
riacquistò colore anche se i suoi lineamenti restarono tesi e sofferenti. Si
alzò dalla scrivania con una certa difficoltà, non l’avevo mia visto così, e
uscì. Lo seguii in silenzio all’aperto, pensai avesse bisogno d’aria. Lo vidi
estrarre un pacchetto di sigarette e ne accese una. Rimasi perplesso. Avrei
voluto rimproverarlo, ma preferii un modo meno diretto: “Nico, cazzo, ma non sai
che il fumo fa male alla salute?”. Mi guardò divertito e prendendosi gioco di
me:”Certo che lo so. Ma a me non fa alcun danno, quindi perché perdere uno dei
pochi piaceri della vita? La nicotina poi mi serve proprio. Non ti preoccupare,
tutto sotto controllo.”. Non ebbi la forza di replicare, non sapevo che cosa
dire, non capivo … Poi, le belle risposte immediate, lapidarie, quelle che fanno
colpo, non sono proprio il mio genere. Mi sorrise e mi diede una pacca sulla
spalla. Con ciò ritenne chiuso l’incidente. Per quel giorno non ne parlammo più.
Nei giorni successivi la vita sembrava tornata alla normalità, io leggevo e lui
mi interrogava, poi discutevamo. Avrei azzardato la nascita di un sentimento
nuovo: amicizia? Forse era troppo per uno freddo come me, chi può dirlo? Non si
era ancora sopito il disappunto per quell’episodio che, come una doccia fredda,
si ripresentò. Stesso copione, stessa preoccupazione, stessa indifferenza da
parte di Nico. Cercai di parlargli, di convincerlo a farmi capire che cosa stava
succedendo. Non volle, mi disse che ero troppo giovane per capire, non mi dovevo
preoccupare e mi rimproverò nuovamente per la mia lentezza nella lettura. Io mi
impegnavo ma più di tanto proprio non ci riuscivo, altre tutto alcuni testi non
erano poi così semplici. Mi prendeva in giro e mi diceva che ero digiuno di
buone letture e che dovevo crearmi una coscienza e una sensibilità nuove.
Continuammo ancora per qualche mese, non tutto quello che mi passava, mi piaceva
ma per non dargli un dispiacere proseguivo. Un giorno mi stupì con una domanda
che mi fece piacere ma nel contempo mi lasciò perplesso: “Ma uno come te, in
banca che ci sta a fare?”. Non gli risposi e lo mandai all’inferno. Mi domandai
però se fosse una implicita attestazione di emancipazione. Lo presi come un
complimento, anche se non glielo avrei mai confessato. Gli attacchi si
ripresentarono, alla fine di uno di questi con un sorriso triste mi disse che la
mia lentezza avrebbe impedito di completare il piano di lavoro che si era
prefissato, per lui ero una delusione. Scossi la testa desolato perché avevo
capito perfettamente il messaggio che aveva voluto lanciarmi, non dissi nulla,
la voce non aveva trovato la forza di uscire. Tanta consapevolezza, tranquillità
e forza mi spaventavano. Ora capivo il senso di quando mi diceva che cultura e
ideali sono le uniche cose che sopravvivono nel tempo a dispetto della pochezza
umana. La crisi successiva fu particolarmente violenta, forse la
peggiore. Gli chiesi se desiderasse essere portato in ospedale, dove lo
curavano. Mi rispose che preferiva lo portassi a casa. Durante il tragitto stava
troppo male per parlare, anch’io non me la sentivo. Davanti a casa mi offrii di
accompagnarlo dentro. Rifiutò. Scese dall’auto lentamente, mi guardò e con un
filo di voce:“Ciao Giampa, hai fatto un buon lavoro, mi piace come sei
diventato, non dovevo dirtelo, poi ti monti la testa, ma vista la situazione …”.
Se ne andò, non potei dirgli quanto mi dispiaceva e quanto
avessi apprezzato la sua amicizia.
Un breve addio
Fu con il cuore traboccante di dolore che mi accinsi a compiere l’atto a suggello
di questa vicenda. Con profonda mestizia avevo deciso di compiere quello che lei
avrebbe voluto. Parcheggiai l’auto sul piazzale vicino alla fermata degli
autobus a Sacro Monte. Mi guardai attorno, poca gente e poche auto. Diedi un
ultimo sguardo alle cime circostanti e mi avviai a piedi; nello zaino sulle mie
spalle, avevo riposto con cura l’urna in cui riposavano le sue ceneri. Non
avevo voluto nessuno con me, questo saluto, quest’ultimo momento dovevano
essere solo miei. Un distacco, una separazione che riguardava solo noi, nessuno
avrebbe dovuto disturbare la nostra intimità. Quest’ultimo gesto, sarebbe
dovuto restare impresso nella mia memoria per sempre. Mi avviai con passo
deciso. Avevo lasciato alle spalle il parcheggio e più in là, in posizione
dominante, il corpo massiccio del convento delle suore di clausura e, appena
dietro, la sagoma tozza e squadrata del campanile del Santuario della Madonna
del Monte. M’inoltrai nel sentiero per cercare un luogo adatto. Il cammino
sebbene fosse in salita, non presentava difficoltà poiché il dislivello era
graduale e costante. Camminai fino a quando attorno a me non ci fu che natura,
silenzio e pace. Sulla mia sinistra il fianco della montagna saliva dolcemente
con prati verdeggianti e boschi compatti fino ai piedi del Campo dei Fiori,
sulla mia destra una discesa ripida si protendeva verso la valle. Era una
visione emozionante quasi commovente. Dal Sacro Monte la mia vista spaziava sino
a comprendere i confini della Provincia.
In una giornata limpida avrei potuto vedere anche più in là, forse Milano.
Quello che era importante non era vedere quella città, non ne valeva la pena, ma
il senso di ampiezza, di vastità, di respiro … Un senso di libertà che ti
prendeva e che aveva il potere di rendere meno pesanti i fardelli che gravavano
sullo spirito. Mi scossi, rammentai a me stesso che non ero lì per una
passeggiata o per ammirare il panorama. M’imposi di concentrarmi sulle prossime
azioni che avrei dovuto compiere. Dovevo vivere quell’attimo con intensità. Con
uno sforzo di volontà riprendesi
la mia vita che oscillava in un vuoto di sentimenti ed emozioni. Dovevo essere
il presente, unico e assoluto. Ritornai alla realtà, prendendo nuovamente
consapevolezza del mio io. Fui solo, ma libero e leggero, quasi potessi librarmi
sopra le cose con distacco dalla materialità. Finalmente i miei pensieri
potevano sgorgare liberi e selvaggi. Nessun condizionamento poteva imbrigliarli
o costringerli entro schemi precostituiti, nessun vincolo poteva impedire loro
di essere trasparenti e sinceri. La verità poteva palesarsi senza il timore di
essere carpita o dispersa in ogni direzione senza controllo come la polvere
spinta da un vento impetuoso. Che bella sensazione essere liberi! La pace di un
tranquillo pomeriggio era incrinata solo dal frinire delle cicale. Nel raggio di
centinaia di metri, nessuno. Mi fermai, mi guardai attorno, era la posizione
ideale. Sfilai lo zaino, lo deposi a terra ed estrassi l’urna. Era giunto il
momento. Mi concentrai per meglio interpretare la sacralità dell’atto. Con gesti
dolenti e misurati tolsi il coperchio. Inclinai l’oggetto fino a quando la
polvere sottile cominciò a scivolare fuori. La brezza, con un turbine leggero,
cominciò a disperderla. Guardai con attenzione mia moglie che se ne andava in
forma impalpabile e diventava una parte del cielo. Contemplai con partecipe
attenzione questa compenetrazione di elementi, il fenomeno velocemente stava
per esaurirsi. Peccato, troppo in fretta! Sarei rimasto lì per ore a guardare
il leggero fluttuare delle ceneri nell’aria tersa. Quando l’ultimo granello
sparì, realizzai che il distacco si era consumato. Il dolore opprimente che
gravava sul mio animo parve stemperarsi nell’azzurro diafano che mi circondava.
Tutto era tornato come prima, sembrava che nulla fosse successo. La natura
aveva assorbito con indifferenza questo nuovo elemento. Percepii in un attimo
quanto fosse irrisoria e irrilevante la nostra singola presenza umana. Qualche
inutile granello di polvere in mondo troppo grande per considerarci. Mi imposi
di smettere di lasciarmi prendere da ragionamenti inopportuni come la caducità
della nostra esistenza e i misteri dell’universo. Mi stavo allontanando troppo
dal presente e da quanto avevo appena fatto. Tornai alla realtà e riconsiderai
che l’urna era vuota … Definitivamente, vuota come la mia vita. Mi restava solo
il dolore di questa scomparsa. Forse anche il mio dolore era una piccola cosa
rispetto alla maestosità dei rilievi e all’ampiezza della pianura che erano
attorno a me. Ma era così drammatica la mia situazione? Ripensandoci, dovetti
ammettere che non fu poi così difficile separarsi da lei. Tutto sommato era
stato abbastanza semplice, una leggera commozione, quella di prassi, un
rimpianto che sarebbe stato duro a morire, ma nulla di più. Se dovevo essere
sincero, senza dubbio era stato più impegnativo organizzare la sua prematura
dipartita. C’era voluto ingegno e attenzione per rendere credibile l’incidente
che aveva causato la sua morte. L’avevo progettato per lungo tempo curando
tutti i particolari e prevedendo anche i minimi dettagli. Avevo aspettato il
momento giusto, con pazienza, con costanza senza precorrere i tempi. Quando le
circostanze si presentarono positive, avevo finalmente agito con precisione e
determinazione. Il risultato era stato eccellente. C’ero riuscito, lo avrei
definito un delitto perfetto. Ripesando a tutto non potevo non provare un certo
orgoglio per un’azione perfettamente riuscita. L’unico rimpianto era quello di
non poter condividere con altri il successo. Pensavo sempre che fare qualcosa e
non poterla raccontare faceva perdere parte del valore dell’iniziativa. Questa
volta, però, l’impresa era talmente importante e gratificante che potevo fare a
meno di sbandierarla ai quattro venti. Un sorriso cattivo e soddisfatto
attraversò il mio viso. Gioivo e ancora mi congratulavo con me stesso. Guardai
l’orologio, l’intensità del sole cominciava a calare, decisi che era il momento
di tornare sui miei passi. Era giusto che chiudessi la giornata e con essa
tutta la vicenda. Dovevo metterci una pietra sopra … In questo caso avrei
potuto dire … Tombale. Sorrisi compiaciuto della mia battuta. Non era poi così
male. Ero ancora in questo stato di grazia, quando uno stormo di cornacchie si
posò a qualche metro di distanza. Chiassose e sgradevoli invasero in pochi
attimi un ampio spazio vicino al sentiero. Le guardai infastidito, ero curioso
di capire che cose stessero facendo. Per alcuni minuti non fecero altro che
muoversi in modo apparentemente disordinato a casuale. Non mi piacevano, avrei
preferito non essere così vicino, mi venne in mente un film di Alfred
Hitchcock, l’idea non mi piacque per nulla. Ricordavo quanto potevano essere
pericolosi gli uccelli. Continuai a osservarli con sospetto, anche se ebbi
l’impressione di non riuscire ad allontanarmi. Mentre ancora pensavo
all’opportunità di andarmene, un uccello si staccò dal gruppo. Mi si avvicinò e
mi guardò con intensità. Un’intensità maligna e magnetica che sembrò volermi
trafiggere. Mi sentii a disagio. Osservai meglio il pennuto che mi controllava
a pochi passi di distanza. Una cosa mi colpì in modo particolare. I suoi occhi,
ecco che cosa c’era che non andava! Troppo espressivi, troppo cattivi. Aveva
uno sguardo umano, non ci volle molto a comprendere e non ebbi più dubbi.
Quello era lo sguardo di mia moglie. Brutta storia, avevo fatto di tutto per
eliminarla e ora tornava a perseguitarmi. Ebbi un’espressione di disgusto misto
a contrarietà. Mi domandai come fosse possibile che le streghe, perché lei era
una strega, non potessero essere eliminate definitivamente. Tutto il mio
impegno, tutto il mio lavoro erano stati inutili? Non ebbi il tempo di
rispondermi. La cornacchia con incedere traballante ma deciso si avvicinò
ulteriormente. Si bloccò con il becco aperto rivolto verso di me. Sembrò
volesse dirmi qualcosa. Forse stava meditando su che cosa dire. Voleva
formulare un rimprovero? Una maledizione? Qualche terribile anatema per punirmi
del mio gesto violento che le aveva tolto la vita normale? Pensai di reagire.
In certi casi è meglio essere i primi a prendere l’iniziativa. Non tergiversai
oltre, la scacciai con un gesto deciso. Intimorito dalla mia reazione
imprevista, lo stormo sbandò, si scompose e perse di coesione. Uno sbattere
d’ali confuso e volarono via tutte, lei e le cornacchie sue amiche. Rapide,
come si erano materializzate, svanirono nel nulla come tante schegge impazzite.
Dopo il frastuono delle ali e delle loro voci sgraziate, tornò il silenzio che
si adagiò sul dolce pendio della montagna. Qualche piuma, qua e là segnarono il
loro passaggio e m’impedirono di pensare che mi ero immaginato tutto. Provai un
certo sollievo e sperai di essermi finalmente liberato di mia moglie e di tutte
le altre streghe. Le avevo sempre odiate tutte, ciarliere, indisponenti,
prevaricatrici … Insopportabili con le loro manie di protagonismo e con le
ripicche da arpie. Per fortuna se n’erano andate. Finalmente restai solo. Ormai
erano diventati invisibili puntini neri nel cielo che perdeva la sua
brillantezza. Tirai un sospiro di sollievo e mi accinsi ad andarmene. Cercai di
scacciare la sensazione negativa che quei maledetti pennuti nerastri erano
riusciti a instillare nel mio animo. Percepii nell’aria un ché di sospeso, una
sensazione di attesa come se aspettassi il verificarsi di qualcosa di nuovo e
indefinito. Questo equilibrio fragile e instabile non durò più di qualche
secondo. Il Fato con la sua crudele determinazione pose fine alla mia attesa.
Nella frazione di un secondo tutto il mio castello incantato di certezze si
frantumò in mille schegge abbaglianti e multicolori. La mia pace, in effetti,
durò poco, troppo poco. Lo squillo del telefonino infranse l’idillio. La cruda
realtà irruppe nuovamente nel presente. Il mondo circostante perse i suoi
delicati colori e ripiombò nelle sue solite cupe e tristi tonalità. Non ci
potevo credere, era mia moglie. Controvoglia risposi. Una voce acida e
irritante mi aggredì: “Ma dove diavolo sei finito?”. Tutto era tornato come
prima, come sempre … Cercai un tono gentile per evitare di irritarla e con deferenza
ribattei: “Stai tranquilla tra dieci minuti sono a casa”.
Evidentemente la risposta non era quella che si aspettava e mi
chiuse il telefono in faccia ponendo così fine alla comunicazione. Non mi stupii
più di tanto. Non avevo mai capito se questa situazione di tensione e difficoltà
di dialogo fosse dipesa da lei o da me. Probabilmente da entrambi, in casi del
genere è impossibile possa essere diversamente. Non me ne feci un cruccio, era
una cosa abbastanza normale. Mi apprestai a rientrare. Rimisi nello zaino il
barattolo del caffè ormai vuoto, alzai le spalle con un sospiro. Inutile
rammaricarsi, questa volta era andata così, potevo considerala una prova
generale, la prossima volta mi sarei organizzato meglio, avrei fatto tutto
quello che avevo studiato e programmato nei minimi dettagli. Ero certo che,
allora, sarebbe stato un addio vero e, soprattutto,
definitivo.
di questa vicenda. Con profonda mestizia avevo deciso di compiere quello che lei
avrebbe voluto. Parcheggiai l’auto sul piazzale vicino alla fermata degli
autobus a Sacro Monte. Mi guardai attorno, poca gente e poche auto. Diedi un
ultimo sguardo alle cime circostanti e mi avviai a piedi; nello zaino sulle mie
spalle, avevo riposto con cura l’urna in cui riposavano le sue ceneri. Non
avevo voluto nessuno con me, questo saluto, quest’ultimo momento dovevano
essere solo miei. Un distacco, una separazione che riguardava solo noi, nessuno
avrebbe dovuto disturbare la nostra intimità. Quest’ultimo gesto, sarebbe
dovuto restare impresso nella mia memoria per sempre. Mi avviai con passo
deciso. Avevo lasciato alle spalle il parcheggio e più in là, in posizione
dominante, il corpo massiccio del convento delle suore di clausura e, appena
dietro, la sagoma tozza e squadrata del campanile del Santuario della Madonna
del Monte. M’inoltrai nel sentiero per cercare un luogo adatto. Il cammino
sebbene fosse in salita, non presentava difficoltà poiché il dislivello era
graduale e costante. Camminai fino a quando attorno a me non ci fu che natura,
silenzio e pace. Sulla mia sinistra il fianco della montagna saliva dolcemente
con prati verdeggianti e boschi compatti fino ai piedi del Campo dei Fiori,
sulla mia destra una discesa ripida si protendeva verso la valle. Era una
visione emozionante quasi commovente. Dal Sacro Monte la mia vista spaziava sino
a comprendere i confini della Provincia.
In una giornata limpida avrei potuto vedere anche più in là, forse Milano.
Quello che era importante non era vedere quella città, non ne valeva la pena, ma
il senso di ampiezza, di vastità, di respiro … Un senso di libertà che ti
prendeva e che aveva il potere di rendere meno pesanti i fardelli che gravavano
sullo spirito. Mi scossi, rammentai a me stesso che non ero lì per una
passeggiata o per ammirare il panorama. M’imposi di concentrarmi sulle prossime
azioni che avrei dovuto compiere. Dovevo vivere quell’attimo con intensità. Con
uno sforzo di volontà riprendesi
la mia vita che oscillava in un vuoto di sentimenti ed emozioni. Dovevo essere
il presente, unico e assoluto. Ritornai alla realtà, prendendo nuovamente
consapevolezza del mio io. Fui solo, ma libero e leggero, quasi potessi librarmi
sopra le cose con distacco dalla materialità. Finalmente i miei pensieri
potevano sgorgare liberi e selvaggi. Nessun condizionamento poteva imbrigliarli
o costringerli entro schemi precostituiti, nessun vincolo poteva impedire loro
di essere trasparenti e sinceri. La verità poteva palesarsi senza il timore di
essere carpita o dispersa in ogni direzione senza controllo come la polvere
spinta da un vento impetuoso. Che bella sensazione essere liberi! La pace di un
tranquillo pomeriggio era incrinata solo dal frinire delle cicale. Nel raggio di
centinaia di metri, nessuno. Mi fermai, mi guardai attorno, era la posizione
ideale. Sfilai lo zaino, lo deposi a terra ed estrassi l’urna. Era giunto il
momento. Mi concentrai per meglio interpretare la sacralità dell’atto. Con gesti
dolenti e misurati tolsi il coperchio. Inclinai l’oggetto fino a quando la
polvere sottile cominciò a scivolare fuori. La brezza, con un turbine leggero,
cominciò a disperderla. Guardai con attenzione mia moglie che se ne andava in
forma impalpabile e diventava una parte del cielo. Contemplai con partecipe
attenzione questa compenetrazione di elementi, il fenomeno velocemente stava
per esaurirsi. Peccato, troppo in fretta! Sarei rimasto lì per ore a guardare
il leggero fluttuare delle ceneri nell’aria tersa. Quando l’ultimo granello
sparì, realizzai che il distacco si era consumato. Il dolore opprimente che
gravava sul mio animo parve stemperarsi nell’azzurro diafano che mi circondava.
Tutto era tornato come prima, sembrava che nulla fosse successo. La natura
aveva assorbito con indifferenza questo nuovo elemento. Percepii in un attimo
quanto fosse irrisoria e irrilevante la nostra singola presenza umana. Qualche
inutile granello di polvere in mondo troppo grande per considerarci. Mi imposi
di smettere di lasciarmi prendere da ragionamenti inopportuni come la caducità
della nostra esistenza e i misteri dell’universo. Mi stavo allontanando troppo
dal presente e da quanto avevo appena fatto. Tornai alla realtà e riconsiderai
che l’urna era vuota … Definitivamente, vuota come la mia vita. Mi restava solo
il dolore di questa scomparsa. Forse anche il mio dolore era una piccola cosa
rispetto alla maestosità dei rilievi e all’ampiezza della pianura che erano
attorno a me. Ma era così drammatica la mia situazione? Ripensandoci, dovetti
ammettere che non fu poi così difficile separarsi da lei. Tutto sommato era
stato abbastanza semplice, una leggera commozione, quella di prassi, un
rimpianto che sarebbe stato duro a morire, ma nulla di più. Se dovevo essere
sincero, senza dubbio era stato più impegnativo organizzare la sua prematura
dipartita. C’era voluto ingegno e attenzione per rendere credibile l’incidente
che aveva causato la sua morte. L’avevo progettato per lungo tempo curando
tutti i particolari e prevedendo anche i minimi dettagli. Avevo aspettato il
momento giusto, con pazienza, con costanza senza precorrere i tempi. Quando le
circostanze si presentarono positive, avevo finalmente agito con precisione e
determinazione. Il risultato era stato eccellente. C’ero riuscito, lo avrei
definito un delitto perfetto. Ripesando a tutto non potevo non provare un certo
orgoglio per un’azione perfettamente riuscita. L’unico rimpianto era quello di
non poter condividere con altri il successo. Pensavo sempre che fare qualcosa e
non poterla raccontare faceva perdere parte del valore dell’iniziativa. Questa
volta, però, l’impresa era talmente importante e gratificante che potevo fare a
meno di sbandierarla ai quattro venti. Un sorriso cattivo e soddisfatto
attraversò il mio viso. Gioivo e ancora mi congratulavo con me stesso. Guardai
l’orologio, l’intensità del sole cominciava a calare, decisi che era il momento
di tornare sui miei passi. Era giusto che chiudessi la giornata e con essa
tutta la vicenda. Dovevo metterci una pietra sopra … In questo caso avrei
potuto dire … Tombale. Sorrisi compiaciuto della mia battuta. Non era poi così
male. Ero ancora in questo stato di grazia, quando uno stormo di cornacchie si
posò a qualche metro di distanza. Chiassose e sgradevoli invasero in pochi
attimi un ampio spazio vicino al sentiero. Le guardai infastidito, ero curioso
di capire che cose stessero facendo. Per alcuni minuti non fecero altro che
muoversi in modo apparentemente disordinato a casuale. Non mi piacevano, avrei
preferito non essere così vicino, mi venne in mente un film di Alfred
Hitchcock, l’idea non mi piacque per nulla. Ricordavo quanto potevano essere
pericolosi gli uccelli. Continuai a osservarli con sospetto, anche se ebbi
l’impressione di non riuscire ad allontanarmi. Mentre ancora pensavo
all’opportunità di andarmene, un uccello si staccò dal gruppo. Mi si avvicinò e
mi guardò con intensità. Un’intensità maligna e magnetica che sembrò volermi
trafiggere. Mi sentii a disagio. Osservai meglio il pennuto che mi controllava
a pochi passi di distanza. Una cosa mi colpì in modo particolare. I suoi occhi,
ecco che cosa c’era che non andava! Troppo espressivi, troppo cattivi. Aveva
uno sguardo umano, non ci volle molto a comprendere e non ebbi più dubbi.
Quello era lo sguardo di mia moglie. Brutta storia, avevo fatto di tutto per
eliminarla e ora tornava a perseguitarmi. Ebbi un’espressione di disgusto misto
a contrarietà. Mi domandai come fosse possibile che le streghe, perché lei era
una strega, non potessero essere eliminate definitivamente. Tutto il mio
impegno, tutto il mio lavoro erano stati inutili? Non ebbi il tempo di
rispondermi. La cornacchia con incedere traballante ma deciso si avvicinò
ulteriormente. Si bloccò con il becco aperto rivolto verso di me. Sembrò
volesse dirmi qualcosa. Forse stava meditando su che cosa dire. Voleva
formulare un rimprovero? Una maledizione? Qualche terribile anatema per punirmi
del mio gesto violento che le aveva tolto la vita normale? Pensai di reagire.
In certi casi è meglio essere i primi a prendere l’iniziativa. Non tergiversai
oltre, la scacciai con un gesto deciso. Intimorito dalla mia reazione
imprevista, lo stormo sbandò, si scompose e perse di coesione. Uno sbattere
d’ali confuso e volarono via tutte, lei e le cornacchie sue amiche. Rapide,
come si erano materializzate, svanirono nel nulla come tante schegge impazzite.
Dopo il frastuono delle ali e delle loro voci sgraziate, tornò il silenzio che
si adagiò sul dolce pendio della montagna. Qualche piuma, qua e là segnarono il
loro passaggio e m’impedirono di pensare che mi ero immaginato tutto. Provai un
certo sollievo e sperai di essermi finalmente liberato di mia moglie e di tutte
le altre streghe. Le avevo sempre odiate tutte, ciarliere, indisponenti,
prevaricatrici … Insopportabili con le loro manie di protagonismo e con le
ripicche da arpie. Per fortuna se n’erano andate. Finalmente restai solo. Ormai
erano diventati invisibili puntini neri nel cielo che perdeva la sua
brillantezza. Tirai un sospiro di sollievo e mi accinsi ad andarmene. Cercai di
scacciare la sensazione negativa che quei maledetti pennuti nerastri erano
riusciti a instillare nel mio animo. Percepii nell’aria un ché di sospeso, una
sensazione di attesa come se aspettassi il verificarsi di qualcosa di nuovo e
indefinito. Questo equilibrio fragile e instabile non durò più di qualche
secondo. Il Fato con la sua crudele determinazione pose fine alla mia attesa.
Nella frazione di un secondo tutto il mio castello incantato di certezze si
frantumò in mille schegge abbaglianti e multicolori. La mia pace, in effetti,
durò poco, troppo poco. Lo squillo del telefonino infranse l’idillio. La cruda
realtà irruppe nuovamente nel presente. Il mondo circostante perse i suoi
delicati colori e ripiombò nelle sue solite cupe e tristi tonalità. Non ci
potevo credere, era mia moglie. Controvoglia risposi. Una voce acida e
irritante mi aggredì: “Ma dove diavolo sei finito?”. Tutto era tornato come
prima, come sempre … Cercai un tono gentile per evitare di irritarla e con deferenza
ribattei: “Stai tranquilla tra dieci minuti sono a casa”.
Evidentemente la risposta non era quella che si aspettava e mi
chiuse il telefono in faccia ponendo così fine alla comunicazione. Non mi stupii
più di tanto. Non avevo mai capito se questa situazione di tensione e difficoltà
di dialogo fosse dipesa da lei o da me. Probabilmente da entrambi, in casi del
genere è impossibile possa essere diversamente. Non me ne feci un cruccio, era
una cosa abbastanza normale. Mi apprestai a rientrare. Rimisi nello zaino il
barattolo del caffè ormai vuoto, alzai le spalle con un sospiro. Inutile
rammaricarsi, questa volta era andata così, potevo considerala una prova
generale, la prossima volta mi sarei organizzato meglio, avrei fatto tutto
quello che avevo studiato e programmato nei minimi dettagli. Ero certo che,
allora, sarebbe stato un addio vero e, soprattutto,
definitivo.
Racconto che ha partecipato in versione ridotta al concorso "Mille e una storia" edizione 2011 e pubblicato nell'omonimo libro.